Pochi personaggi dalle attitudini bizzarre hanno saputo ritagliarsi un posto nella storia. Ultimi che seppero assurgere all'empireo dei grandi. Vicende umane da epica dei vinti. All'Elba senza dubbio va ascritto a essi Francesco Grassi, da tutti conosciuto come Mago Chiò. Che lui probabilmente avrebbe scritto MAGO CHIO', in grassetto e nel carattere più grande possibile.
Perché ha immortalato il suo pseudonimo in un posto d'onore tra i grandi che l'isola ha dato a ogni scibile? Perché se ne parla ancora oggi, gli si dedicano articoli e capitoli di libri? Per niente in particolare. Forse per il suo modo di essere. Unico, certo, ma di una divina follia che rende gli unici più unici di tutti.
Negli anni seguenti il suo soprannome lo hanno assunto in tanti, giornalisti e spiriti più o meno liberi, poeti o supposti tali. È addirittura diventato anche un brand commerciale. Un'appropriazione che non sarebbe piaciuta al vero Mago Chiò. Per Francesco era un nome d'arte, una predestinazione, un'affermazione di identità. Coniato per lui, il primo mago dell'Elba, e per nessun altro.
Visse pochissimo, appena 24 anni, dal 1° marzo 1867 al 18 giugno 1891, l'età giusta in cui o dai tutto quello che puoi dare, o sei condannato a trovare altre strade di vita. Anni di emarginazione, senza un tetto sulla testa e poco per mangiare o vivacchiare, spesso rimediato grazie a furtarelli. Scrive Mario Foresi: “Il mago Chiò viveva a Portoferraio senza casa, dormendo ora qua ora là, sotto i portici dei contadini, nelle garitte abbandonate delle fortezze, mangiando senza alcun riguardo di ciò che trovava nei campi. I contadini lo conoscevano e lo lasciavano fare. Del resto egli non rubava la frutta e gli ortaggi clandestinamente: anzi, soleva annunziarsi col fragore di una vecchia tromba che portava a armacollo e che sonava con abilità di bersagliere. Così, forse si credeva un conquistatore cui il tributo della terra fosse dovuto, e s'inerpicava sulle piante, tranquillo e al cospetto de' vignaiuoli”.
Era nato a Portoferraio, al numero 3 di via dell'Oro. Il padre Marco era giunto all'Elba come bracciante, dopo essere passato dalla Maremma. Era uno dei cosiddetti lombardi, continentali venuti sull'isola per i lavori agricoli, non necessariamente dalla Lombardia ma genericamente dal Nord Italia. La madre, Maria, e altri due fratelli minori, anch'essi conosciuti coi pittoreschi soprannomi di Micco (nato nel 1868) e Cavalier Yenny (o Jenny, la cui pronuncia è comunque identica, nato nel 1869), formavano la famiglia Grassi. Vissero sempre in estreme ristrettezze, e quando Marco guadagnava qualche soldo, lo buttava subito in vino all'osteria dello Sbarra. Inoltre sembra che, rientrando a casa ubriaco, fosse solito riempire di busse moglie e figli. Morì suicida, tagliandosi le vene. Dando in eredità ai figli una medesima fine tragica.
Anche i fratelli erano bizzarri al pari di Francesco. Micco faceva – boriosamente, aggiunge Sandro Foresi – lo strillone di giornali. Ma, a parte Mago Chiò, fu il Cavalier Yenny a godere di una certa popolarità a Portoferraio. Ecco la descrizione dello stesso Sandro Foresi: “Il cav. Yenny era gerente responsabile di pubblicazioni periodiche locali. Ubriacone fino all'inverosimile, genialoide, bazzicava le redazioni dei giornali, i cenacoli, con la stessa disinvoltura con cui frequentava le osterie. Voleva sempre dir la sua ad ogni costo e qualche volta, strano, la imbroccava. Ogni tanto lo raggiungeva di urgenza qualche mandato di cattura per reato di stampa, ed allora i... colleghi lo facevano imboscare per evitargli il carcere preventivo di una colpa non sua, ma di loro. Le sue soste erano a San Martino dove nessuno lo disturbava, neppure la polizia che faceva vista di non accorgersene. Bruciato dal vino, morì ancor giovane”. Di lui esiste anche un bozzetto, opera dello stesso Foresi. È raffigurato con un completo di stracci e scalzo, quasi un Lord Brummel degli accattoni.
Francesco si diede da sé stesso il soprannome Mago Chiò, spiegandone la ragione con queste parole: “Chiò Mago è un nome dato da me, significherebbe andando in qualunque pericolo di vita, in qualunque altezza che possa restare incredula al popolo!” Anche al pittore Telemaco Signorini, a cui si era presentato come Primo Mago Chiò, diede una risposta simile: “Perché io solo posso fare quel che non sa fare nessuno”. Insistendo nella curiosità circa il perché proprio quel Chiò, Francesco aggiunse: “Perché un giorno ero in d'un bosco e le cornacchie mi vedevano e mi chiamavano...chiò... chiò... e mi sono vorsuto chiamà Chiò”.
Aveva un suo look particolare, soprattutto un berretto floscio sempre calcato in testa, e un abito di stracci che sfoderava come un dandy, e contribuiva anch'esso a renderlo iconico, quasi una maschera elbana, un Charlie Chaplin alla ferajese. E l'immancabile tromba.
Il suo sembiante era così pittoresco che proprio in simpatici scatti fotografici e pitture poteva finire. Tra il 1888 e il 1890 fu ritratto da un artista di calibro quale il già citato Signorini. È per esempio del 1888 una piccola tempera su tavoletta di legno, oggi conservata alla Pinacoteca foresiana. Francesco è ritratto in primo piano, di profilo, con lo sguardo fisso e acuto verso un punto lontano. Veste sobriamente in azzurro con il suo caratteristico cappello floscio dello stesso colore. Stando all'immagine appare come un bel giovane olivastro, con un naso pronunciato e sottili baffetti. Nel 1890 invece Telemaco lo ritrasse a figura intera. Francesco appare con la classica abbronzatura di chi passa tutto il tempo all'aria aperta. Veste poveramente una casacca, una camicia e una maglia scure; e pantaloni bianchi, sporchi (come un po' tutta la sua figura) e sgualciti; un paio di grosse scarpe e un cappellaccio di paglia a falde rialzate. Ci sorride, quasi sogghignando, guardandoci in faccia.
Esiste anche una foto, in cui Francesco assume una posa tra il buffo e il marziale, parodia di un bersagliere. Molto più giovane dei ritratti di Signorini (probabilmente aveva meno di vent'anni) è nella postura di un militare, indossa una sobria veste bianca di molte taglie superiore alla sua, con la tromba nella mano destra e un legno, a fungere da fucile, in quella sinistra. Fiero della sua figura volge lo sguardo verso un punto fuori dall'obiettivo. Sopra il berretto con sottogola, a mo' di elmetto, svetta un bel corvo.
A proposito di questo corvo, ricorda Mario Foresi: “Una volta egli tolse un piccolo corvo a un crepaccio nei dirupi dioritici delle fortificazioni, e siffattamente lo educò che l'animale crebbe domestico e affezionato a tutti i cittadini come un cane di reggimento. Lo si vedeva appollaiato sul dorso di qualche seggiola, sul ferro di un'incudine, sulla sporgenza di una vetrina, alla porta delle botteghe più popolari. I clienti entravano nella farmacia Pezzolato, entravano da Nando l'orefice, entravano nel forno del Daddi: 'Buon giorno, Marco.' Ed egli rendeva il saluto a tutti, crocidando a mezza voce, sbattendo lievemente le ali”.
Mago Chiò passò tutta la vita in imprese atletiche e spericolate, correndo a perdifiato e, stando a Signorini, nuotando con le braccia legate a qualche galleggiante e spingendosi con le sole gambe. Ma soprattutto arrampicandosi su muri, scogliere e alberi, per carpire nidi di uccelli e capperi. Sempre il pittore asserisce che Francesco fosse di corte vedute, a differenza del padre non avesse il vizio del bere e nemmeno quello di giocare, e provasse “un filosofico disprezzo per il denaro”, tanto che gli affidavano in tutta sicurezza anche grosse somme da consegnare qua e là per l'isola. E racconta che delle signore gli commissionarono un lavoro di scavo di gradini nella scogliera, per scendere più comodamente al mare; Francesco lavorò duramente due giorni e si accontentò di appena due soldi di paga.
La sua dote migliore era l'arrampicata libera – oggi lo diremmo un free climber –, praticata non solo per diletto, e non certo per guadagnarci, ma anche per imprimere un sigillo alla sua notorietà. Era un vero mago dell'ascensione, sfruttando quel suo fisico, medio in tutto, dalla statura al peso, ma con braccia e gambe snelle e robuste. Si racconta che esse gli dessero una camminata dinoccolata, ma lo facessero apparire un dio della scalata. Nel suo caso la classe sottoproletaria andava davvero a bussare alle porte del paradiso.
Probabilmente considerava l'arrampicata un'arte, tanto da portarsi un secchio di vernice e un pennello, e vergare sul muro dell'impresa la sua firma d'arte. Mago Chiò, scritto in grossi caratteri, si poteva ancora leggere fino a non molti anni fa sulle mura fortificate portoferraiesi o (chi scrive, lo ricorda benissimo) sulla torre non ancora restaurata del Volterraio. Francesco era analfabeta, ma tanto gli bastava conoscere il suo pseudonimo per rendere la sua vita appagata. Un suo sigillo è conservato ancora oggi al forte Falcone. In vernice rossa si legge: 1° Chiò nato l'anno 1867.
Non si accontentava infatti di pareti rocciose, ma di monumenti. E non solo le caserecce mura medicee di Portoferraio, ma posti illustri, in cui avrebbe certo fatto parlare di sé l'universo mondo: la Torre di Pisa, la fiorentina Cupola di Brunelleschi o la bolognese Torre degli Asinelli, le sue imprese leggendarie. Poteva però incappare in intoppi. L'impresa felsinea gli costò qualche ora di guardina. Ma, si sa, la fama esige qualche sacrificio. Ben ripagato, però: molti eruditi arrivarono a parlare di lui, financo a dedicargli versi, tra il patetico e il rispettoso, tra l'ironico e l'elogiativo.
Per “passare il gozzo” viaggiava a sbafo, per esempio sgattaiolando nella stiva del piroscafo. Si racconta che una volta tentasse il passaggio del canale “a bordo” di un tavolone. L'impresa rischiò di trasformarsi in tragedia, se una barca non lo avesse raccolto, aggrappato disperatamente al legno. Ma forse questo fa parte della leggenda che lo ammantò, e probabilmente che lui stesso contribuiva ad alimentare.
Una volta giunto a Piombino, per raggiungere la sua meta, se la faceva a piedi. E questo molto probabilmente è verità, se ce lo testimonia Signorini, che lo invitava a passare a trovarlo nei suoi soggiorni nel contado fiorentino o dell'Appenino tosco-emiliano. Immaginatevi, oggi, farsi una camminata da Piombino a Bologna senza un soldo in tasca. Basterebbe questo per meritarsi un plauso.
La sua morte fu molto romantica, si potrebbe dire ottocentesca, figlia di quei tempi. Si suicidò infatti per una delusione d'amore, secondo alcuni innamorato di una malafemmina. Si tramanda il nome della pulzella, Eleonora, ma a parte questo null'altro si sa di lei. E vai a sapere se anche questa sia solo leggenda o realtà. In ogni caso secondo alcuni tutte le sue imprese era volte a impressionare Eleonora e spingerla all'amore. Al posto del suo nome d'arte, Francesco avrebbe voluto vergare quello dell'amata, ma essendo analfabeta non vi riuscì.
Scelse un modo molto curioso di andarsene. E forse c'era anche una ragione per cui volle in morire in maniera così inusuale e atroce, che probabilmente non sapremo mai. Ingerì infatti un intruglio di capocchie di zolfanelli triturate. Ad aggiungere pathos alla sua ultima “impresa”, si sdraiò sugli spalti dei bastioni medicei. Qualcuno ebbe a dire che non avesse intenzioni serie di morte, ma avesse escogitato un modo per farsi notare, spingere la bella a un moto di rimorso e farsi salvare in extremis. Anche questo, in puro romanzo ottocentesco. Quando i dolori si fecero tremendi, e vedendo che nessuno arrivava, si trascinò fino alla farmacia, in cerca di aiuto dell'amico dottor Pezzolato. Ma il tentativo di soccorso fu vano.
Dopo anni trascorsi all'aria aperta, sempre col naso “all'ònsu”, Mago Chiò dovette affrontare l'ultimo viaggio verso il basso e il buio della terra. Ma a differenza di molti disgraziati per lui era iniziata l'immortalità. E da un senso di pena e commiserazione dei suoi contemporanei, si passerà all'ammirazione della leggenda di noi posteri.
Andrea Galassi